Fight Club, il libro

Per una volta, leggere il libro dopo aver visto il film ti fa gustare l’abilità di Palahniuk nell’accompagnarti nello schizofrenico mondo di Fight Club

fight club

Mai come per questo libro, è difficile – se avete visto l’omonimo capolavoro cinematografico firmato da David Fincher e con degli attori giganteschi come Brad Pitt ed Edward Norton – tenere separate nella lettura le scene immaginate capitolo dopo capitolo da quelle viste al cinema.

Ho deciso di ordinare il libro dopo aver letto un commento sui social in cui si diceva che il film era bellissimo ma il libro non era da meno.

Conoscevo l’autore, Chuck Palahniuk, che mi aveva letteralmente stregato con il suo Soffocare (anch’esso edito da Mondadori), ma avevo ritenuto superfluo leggere Fight Club (che tra l’altro è opera prima di Palahniuk) perché pensavo che davvero poco si potesse dare oltre a quanto espresso su pellicola.

Invece…

Dopo aver litigato con le prime pagine, che sembravano ostiche, e dopo aver accettato di usare le facce di Pitt, Norton e degli altri protagonisti del film, come controfigure alla mia immaginazione, ho finalmente iniziato a gustare il libro. E ne sono stato letteralmente risucchiato.

La storia è geniale. Non la racconto perché credo che il mondo si divida tra chi la conosce e chi, non conoscendola, mi odierebbe se la anticipassi qui.

Ma quello che Palahniuk riesce a fare, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, è di creare un vortice frenetico di parole che rende perfettamente la sensazione dell’universo schizofrenico del protagonista/narratore.

Paragonandolo alla scrittura dei grandi classici, è stridente la differenza: nei primi, le parole sono usate per il loro significato. Ogni sfumatura di senso serve a dettagliare; le sensazioni sono descritte come lo sono i personaggi e le ambientazioni. In questo romanzo, invece, il suono e il ritmo delle parole travalica il significato e trasmette esso stesso le sensazioni che l’autore vuole ricreare.

Ne risulta un racconto avvolgente, con ripetizioni che – lungi da diventare pesanti – servono a condurre in quella spirale che lentamente ci porta al gran finale.

Finale che (allarme spoiler) si differenzia in parte dalla storia del film.

La realizzazione cinematografica del romanzo è un capolavoro essa stessa. Impossibile leggere il libro e non restare affascinati dalla maestria con cui il regista, David Fincher, ha creato il mondo di Tyler e ha diretto gli attori.

Quindi, riassumendo.
Avete visto il film? Leggete il libro.
Non avete visto il film, ma avete letto il libro? Guardate subito il film.
Non avete visto il film e non avete letto il libro? Per una volta date la precedenza al film, leggere il libro sarà ancor più piacevole conoscendo dove l’autore va a parare.

Fight Club
Chuck Palahniuk
Mondadori, Oscar
190 pagg, euro 13,00

La salute nella corsa

Ecco la mia recensione al manuale “La salute nella corsa” che ci introduce ad un metodo scientifico per conoscere meglio la nostra passione

La salute nella corsa

Negli ultimi tre anni il mio rapporto con la corsa ha trovato un nuovo equilibrio.
Ho smesso di gareggiare e di correre con quella regolarità che solo quando ti alleni riesci a mantenere.
La corsa non è più il fine, ma solo un mezzo per stare meglio con il mio corpo e per avere un rapporto più intenso con l’ambiente che mi circonda.

Dopo il primo periodo di lockdown mi ero fermato completamente (i 200 metri da casa non mi permettevano nessuna uscita vera e propria).
Poi durante l’estate ho camminato tanto e corso poco, così a settembre e nel secondo lockdown ho pensato fosse meglio ridare una certa regolarità alle mie uscite.

Più o meno nello stesso periodo mi è capitato tra le mani un libro particolare.
Si tratta de La salute nella corsa, scritto da Blaise Dubuois e Frèdèric Berg (Mulatero Editore).
Il primo è una sorta di running guru, il secondo un giornalista e runner appassionato.

Non si tratta di un manuale nell’accezione classica del termine.
Non hanno come scopo quello di insegnarti un metodo o di farti raggiungere un risultato.
Si tratta piuttosto di un compendio di informazioni che coprono tutti gli aspetti della pratica della corsa.

Non a caso Dubois è il fondatore della Clinica del Running, un’organizzazione che ha lo scopo di creare una rete di professionisti della corsa (preparatori e terapisti) che possano poi supportare atleti professionisti ed amatori.
Un progetto ad ampio respiro, nato per essere internazionale e basato sull’approccio scientifico sperimentale.

Blaise Dubois è anche il coproprietario delle cliniche PCN (cliniche fisioterapiche e di medicina dello sport in Quebec), non solo teoria dunque, ma tanta pratica.
La Clinica del Running è arrivata in Italia nel 2015 e potete scoprire molto di più direttamente sul loro sito.

Ma torniamo al libro.
Da buon bibliofilo sono partito da pagina uno e ne sono rimasto un po’ confuso.
Si inizia con una prefazione di Emelie Forsberg, seguita subito da un capitolo scritto da Frédéric Berg in cui si spiega il senso del libro e chi sia Dubois.
“Bene, ma adesso passiamo al sodo” ho pensato e ho continuato a leggere arrivando alla prima sezione che parla dei vantaggi della corsa e ospita l’intervento di Karim Khan e subito dopo di Ian Adamson… insomma mi sono chiesto “ma questo libro chi lo ha scritto veramente?”

In realtà il senso dell’opera è proprio questo. Una raccolta di testi e di testimonianze di 50 esperti (scienziati, professori universitari, atleti professionisti, allenatori, nutrizionisti e via dicendo) che coprono tutti i più importanti aspetti del running.

Ho smesso di leggere in sequenza e ho iniziato a saltare avanti ed indietro tra le pagine, prendendo spunto dall’indice ed esplorando un po’ alla volta i vari capitoli.
Si parla di alimentazione (ad esempio, cosa sapete del digiuno ad intermittenza?) e di scarpe (sapevate che la scarpa più antica risale a 5.500 anni fa?); si parla di trail (l’esperto è Guillaume Millet, un professore universitario che ho conosciuto quando è arrivato terzo al Tor des Geants) e di cicli di allenamento; quando si dice che la corsa è per tutti non si parla di anziani (anche se c’è un capitolo dedicato) ma di atleti con le protesi.

Mi ha incuriosito una parte stampata su pagine con una cornice rossa (!) ed è scoperto che è quella relativa alla prevenzione degli infortuni (chi corre sa che questa è la parte più importante in assoluto). Più avanti c’è anche un capitolo sulle ultradistanze e uno sul benessere e uno sul doping.

Alla fine posso tranquillamente affermare (senza averlo letto completamente) che nelle quasi 500 pagine di libro sono coperti davvero tutti gli argomenti associati al running.

Ho messo via il volume, ma non tra i manuali della corsa (che sono nello scaffale più alto della mia libreria) ma a portata di mano.
So che tornerò a consultarlo nuovamente nelle prossime settimane, via via che qualche curiosità o nuova esigenza affiorerà alla mia mente.

Un giudizio finale?
Come ho scritto, più che una guida o un manuale, è un approccio scientifico (e parzialmente filosofico) al mondo del running.
La salute nella corsa, oltre ad essere il titolo, è anche un manifestazione di intenti, un principio guida.
Sicuramente un volume interessante che non deve mancare nella libreria del runner esigente.

Mentre scrivo queste righe fuori dalla mia finestra nevica.
Mi sa che per qualche giorno non correrò, ma dovrò integrare l’allenamento con un esercizio diverso: spalare neve.
Fammi un po’ controllare cosa dice il libro sul cross training?

La salute nella corsa
Blaise Dubois, Frédéric Berg
Mulatero Editore, Specialist
496 pagg. / 35,00 euro

Scorciatoie temporali

Sto leggendo “Storia del sentiero”, un saggio di Torbjorn Ekelund, giornalista e scrittore norvegese che, dopo che gli avevano vietato di guidare a causa dell’insorgere dell’epilessia, si è trovato a girare a piedi ed è diventato un po’ il filosofo di questo modo di spostarsi.

In uno dei capitoli l’autore fa notare come le persone traccino dei sentieri anche in città. Si riferisce (e tutti ne abbiamo esempi a portata di mano) a quei sentieri che appaiono sulle aiuole dei parchi pubblici.

Gli urbanisti hanno il loro bel daffare a disegnare aiuole, a porre muretti e steccati, a costruire marciapiedi per forzare le persone a seguire “rotte” imposte all’interno di uno spazio. Ma sono destinati a fallire.

Giorno dopo giorno, la gente cercherà di tagliare per unire nel modo più semplice, veloce e breve, il punto di partenza e quello di arrivo.

biblioteca degli alberi Milano
Uno degli esempi più belli e moderni dell’ecourbanistica: la biblioteca degli alberi a Milano

Personalmente, quei tratti spelacchiati sulle aiuole percorsi per risparmiare un angolo di pochi metri, mi hanno sempre infastidito. Mi sembrava rovinassero quel po’ di verde che c’era. Ma comprendo il punto di vista di Ekelund, sono una prova che gli uomini tracciano “naturalmente” sentieri basandosi sulle scorciatoie.

A questo punto, però, mi è venuto in mente un parallelismo.

Gli urbanisti, nel paradiso artificiale delle nostre città, creano regole di percorsi; ma altre regole, altrettanto artificiali, vengono create per quanto riguarda lo svolgere del Tempo nelle nostre vite.

Ci sono alcuni punti fissi, dettati dalle necessità di coordinarsi: l’orario di lavoro o quello delle scuole, l’ora della pausa pranzo o per l’aperitivo, l’inizio dei programmi in televisione (il tg delle 20, piuttosto che il film alle 21) e via dicendo.

Ma sono orari convenzionali (splendido sinonimo di artificiali) non orari naturali.

Non ci svegliamo quando c’è luce nè andiamo a dormire quando scende il buio. Non mangiamo quando abbiamo fame nè dormiamo quando siamo stanchi.

Allora ho iniziato ad immaginare di creare delle scorciatoie temporali, in cui i nostri ritmi regolino i nostri impegni e non siano schiavi di orari fissati.

Se ci riuscissimo, potremmo riappropriarci del nostro Tempo e rendere un po’ più facile la nostra vita.

Ho deciso di provarci… vi farò sapere come sarà andata a finire.

P.S. Il libro di Ekelund, Storia del Sentiero, non è male, anche se ripropone concetti che – per chi è interessato al tema – sono già stati scritti.
Ha il pregio di raccogliere alcuni spunti interessanti (ad esempio parla sovente di orienteering che è una disciplina sportiva che mi affascina) e di avere una ricca bibliografia da saccheggiare.
Infine, tratta di un’esperienza diretta, in prima persona, e questo lo rende davvero scorrevole (a differenza di altri saggi sullo stesso tema).

Insomma alla fine lo promuovo con sufficienza piena.

Storia del Sentiero
Torbjorn Ekelund
Ponte alle Grazie, Passi
218 pagg, 16 euro

Gli ultimi giorni di quiete

La scoperta finale è che non ci sono vincitori o sconfitti, e persino il confine tra Bene e Male tende a scomparire, quando il dramma di un assassinio marchia le nostre esistenze.

Gli ultimi giorni di quiete

Funziona così: per certi autori compro a prescindere.
Vedo che è uscito un loro nuovo romanzo e lo prendo, senza neppure guardare la terza di copertina per valutare la trama. Spesso non ricordo neppure il titolo, ma so che devo leggerlo.
Succede soprattutto con gli autori di gialli, ma non solo…

Quando sabato sono entrato in libreria per la mia solita “visita settimanale” tra gli altri libri ho anche ritirato l’ultima fatica di Antonio Manzini che ho imparato ad apprezzare seguendo le vicende del commissario (pardon, vice-questore) Rocco Schiavone.

L’ho messo sul comodino e l’ho lasciato lì preferendo iniziare con un altro testo, ma poi ieri sera mi è scivolato in mano e ne sono rimasto letteralmente stregato.

Gli ultimi giorni di quiete non è un giallo.
Ha i ritmi serrati del thriller e tratta di un assassino e di morte. Non sai dove va a parare, ti immagini dei possibili epiloghi ma alla fine cedi e ti lasci guidare dall’autore.

La storia è presto detta. Una donna, mentre torna a casa in treno, riconosce tra i passeggeri l’uomo che ha ucciso suo figlio. E la sua vita cambia.

L’idea è semplice ma l’abilità di Manzini nello scavare dentro i personaggi crea un vero e proprio universo. Nora (la protagonista) e il marito Pasquale sono entrambi schiavi del dolore provocato dalla perdita di Corrado, il loro unico figlio, ma reagiscono in modo molto diverso.

Manzini, che avevo apprezzato anche in “Sull’orlo del precipizio” dove il giallo scompare ed emerge più l’analisi della nostra società, usa la trama del noir per farci riflettere. Ci offre la possibilità di immedesimarci in tutti i protagonisti e verificare cosa avremmo fatto al loro posto.

La scoperta finale è che non ci sono vincitori o sconfitti, e persino il confine tra Bene e Male tende a scomparire, quando il dramma di un assassinio marchia le nostre esistenze.

Un gran bel libro. Da leggere e su cui riflettere.

Gli ultimi giorni di quiete
Antonio Manzini
Sellerio Editore, La Memoria
231 pagg. / 14,00 euro

Arcipelago Altitudini

Una recensione del nuovo libro rivista Arcipelago Altitudini, edito da Mulatero Editore e disponibile in tutte le librerie

Arcipelago Altitudini

Grazie alla segnalazione dell’amico Franco Faggiani (che appare anche in questa prima selezione di autori) ho passato un paio di giorni immerso in un Arcipelago particolare…

Io chiaramente sono di parte.
Sfogliando questo libro-rivista ho ripensato alla splendida avventura di Xrun (la rivista di cui sono stato editore per alcuni anni) e non potevo non notare le tantissime analogie: a partire dal sottotitolo (Xrun – storie di corsa / Arcipelago Altitudini – storie di montagna), fino al formato più vicino al libro che alla rivista, alla scelta di dare spazio importante alle immagini.

Questo progetto, lanciato da Teddy Soppelsa grazie al coraggio di un editore che stimo sempre di più (Mulatero), si pone come obbiettivo quello di raccontare le Terre Alte.

Lo fa senza cadere in quella retorica di genere che è un po’ il cancro della letteratura di montagna. Bando alla dimensione epica, bando al racconto in prima persona sulla conquista della vetta, bando al romanticismo radical chic di chi si trasferisce in montagna. E spazio invece alle voci di chi magari vive in montagna e di montagna, ma che lo fa come scelta di vita, alla ricerca di un suo equilibrio o per storia familiare.

Esperienze diverse. Racconti reali o di fantasia. Zero tecnica, zero informazioni pratiche, 100% umanità.

Arcipelago Altitudini è dunque un libro (chiamarlo rivista sarebbe fuorviante) che raccoglie racconti di autori più o meno conosciuti e che cerca il proprio spazio tra le pubblicazioni legate alla montagna. Una sfida vera, considerando quanto sia difficile il mercato per la parola scritta.

E nel farlo si pone già un’ulteriore sfida: usare modalità narrative diverse. C’è la parola scritta, ovviamente, ma ci sono anche le immagini e le graphic novel fino ad arrivare all’affascinante voce narrante (una sezione rimanda attraverso Qr Code a dei file audio).

Ho letto, gustandomeli uno ad uno, questi primi racconti.
Tutti relativamente brevi, tutti relativamente diversi, tutti diversamente sorprendenti.

Alla fine delle oltre 200 pagine, avevo già la voglia di tornare in libreria per acquistare il nuovo numero… ma so che dovrò aspettare. Come per le stagioni, anche per questo prodotto ci vuole la pazienza di attendere.

Arcipelago Altitudini, storie di montagna
a cura di Teddy Soppelsa, Autori Vari
Mulatero Editore
222 pagg. – 19 euro

La montagna vivente

Recensione de La montagna vivente, un libro che è un atto d’amore per la montagna, scritto nel 1945 da Nan Sheperd

la montagna vivente

La verità è che non so se suggerire o meno la lettura de La montagna vivente, che sicuramente non è l’opera più nota di Nan Sheperd ma che per gli appassionati di montagna è diventata un classico.

Sono arrivato a questo libro su “raccomandazione” di Robert Macfarlane che nel suo splendido “Montagne della mente” ne intesse le lodi. Ho dovuto attendere per averlo, perché non era facile reperirlo e, una volta iniziato, mi ha respinto ed è rimasto a lungo sulla pila di libri accanto al mio letto.

Poi però l’ho ripreso e, magari perché è cambiato il mio atteggiamento, l’ho divorato in poche ore.

E’ un libro strano, scritto da una poetessa scozzese, nata nel 1893 e laureatasi nel 1915. Una donna d’altri tempi (anche se è morta nel 1981) la cui vita è girata tutta attorno al massiccio dei Monti Cairngorm in Scozia.

Montagne austere e dure, ben più di quanto la loro altezza potrebbe far pensare a noi abituati alle Alpi. Spazzate dai venti, conservano ancor oggi il loro lato selvaggio.

Nan Sheperd si innamora perdutamente di quei posti e passa l’intera vita a percorrerne ogni metro innumerevoli volte.

Attenzione, però. Non etichettate pregiudiziamente la Sheperd come un’insegnante di provincia. Amava viaggiare, e viaggiò moltissimo. Ma tornava sempre al suo vilaggio scozzese e trascorreva ogni minuto libero ad esplorare i monti intorno a casa.

Così il Cairngorm assurge ad archetipo della Montagna. Ed il libro, scritto verso la fine della Seconda Guerra Mondiale (la prima bozza fu inviata ad un amico nel 1945), è un’unica grande dichiarazione d’amore verso questo ambiente.

Dicevo all’inizio che non so se raccomandarlo o meno.

E’ scritto in una prosa forbita e datata che io personalmente apprezzo, ma che è lontana dai ritmi frenetici della scrittura di oggi.

Non ha una trama e, forse, neppure un vero filo logico.

E’ un flusso continuo di sensazioni dettata dal rapporto con la montagna che la scrittrice fissa nero su bianco. E’ la summa di una vita di esperienze da escursionista, predominata dalla passione incrollabile per le terre alte.

Alla fine mi è piaciuto.

Probabilmente perché mi sono riconosciuto in quell’amore cieco e irrazionale, in quelle emozioni suscitate dal profumo del muschio o dal fischio del falco.

Probabilmente perché ho apprezzato questa dedizione durata una vita intera e raccontata con più poesia che prosa. Senza capo ne’ coda. Senza uno scopo ultimo.

La montagna vivente
Nan Sheperd
Ponte alle Grazie, Passi
178 pagg. / 14,00 euro

Questioni di cuore

Un romanzo affascinante che, con il pretesto di narrare la vita di Ligabue, indaga sull’animo umano. Splendida prova di Novita Amedei

Sono le piccole storie che accadono ogni giorno a rendere preziosa la nostra vita.

Come nel caso di questo libro che non sarebbe mai finito nel mio radar se non avessi dato vita alla rassegna Saint-Vincent Livres, se al primo appuntamento di quest’anno non avessero partecipato per puro caso i genitori dell’autrice, se l’autrice stessa non fosse stata in vacanza in Valle d’Aosta, se Maria Teresa (la libraia di cui parlo sempre) non avesse l’occhio lungo e la mente allenata all’acchiappare libri.

Tanti “se”, tanti piccoli meccanismi che sono scattati nel momento giusto e mi hanno fatto trovare sul comodino questo romanzo.

Possiamo semplificare al massimo la storia e dire che si tratta della biografia romanzata di Antonio Ligabue, il grande pittore. Ma sarebbe davvero riduttivo.

Il cuore è una selva è un vero e proprio viaggio nella campagna emiliana della fine della Seconda Guerra, e ancora di più un viaggio nella micro società di un piccolo paese.

Tutti i personaggi, dall’oste al parroco, dal prefetto al medico, sono disegnati con amore da Novita Amedei e resi vividi nel racconto per la profondità dei caratteri.

E’ – a ben pensarci – un viaggio nei mille sentimenti dello spirito umano: amore, odio, simpatia, paura, vergogna, coraggio, codardia…

La storia scorre fluida, dall’arrivo del “matto” fino alla rivelazione delle sue doti artistiche. La vita di Ligabue (mai indicato per nome) si intreccia a quelle degli altri paesani e la storia del paese si intreccia con la Storia con la esse maiuscola che vede l’Italia in guerra.

Non voglio svelare di più di questa trama delicata ed intensa, lascio a voi il piacere di scoprire e gustare ogni intreccio.

Ma voglio ancora spendere due parole sulla scrittura di Novita Amedei.
E’ una voce estremamente personale e caratteristica. Nelle prime pagine mi ha colpito e – a tratti – persino respinto, obbligandomi a rallentare la lettura e tornare sui miei passi. Ma un po’ alla volta mi sono lasciato cullare dal suo ritmo e mi ha conquistato.

E’ un libro da leggere con calma, assaporando ogni pagina.

Il compagno ideale per questo periodo di vacanza.

Il cuore è una selva
Novita Amedei
Neri Pozza, Bloom
272 pagg. / 18,00 euro

Non esistono posti lontani

Finalmente posso parlare di questo libro che ho letto un paio di settimane fa e che da domani sarà in tutte le librerie

Ho avuto la fortuna di leggerlo un paio di settimane fa, quando l’ho ricevuto in anteprima per poterlo presentare durante la rassegna Saint-Vincent Livres, ma dal 9 luglio sarà in tutte le librerie.

non esistono posti lontani

Tutti i libri di Franco Faggiani scorrono veloci come l’acqua di un torrente: la storia si svela pagina dopo pagina, i personaggi appaiono e scompaiono mentre i protagonisti crescono e si fanno amare.

Ogni storia che Franco Faggiani racconta, diventa un viaggio, e alla fine chiudi il libro e già hai nostalgia di quella voce che ti ha tenuto compagnia.

“Non esistono posti lontani” è il terzo romanzo che questo prolifico autore pubblica con Fazi.
Non si tratta di una serie, ma dopo le montagne del Piemonte de “La manutenzione dei sensi” e quelle giapponesi de “Il guardiano della collina dei ciliegi” ero curioso di scoprire su quali montagne l’avrebbe portato la fantasia. E non sono stato deluso…

Al centro della storia c’è di nuovo una coppia improbabile: Filippo Cavalcanti, un professore ed archeologo romano avanti negli anni e Quintino Aragonese, un giovane meccanico trafficone di origini campane. Impareranno a fidarsi l’uno dell’altro e il rispetto diverrà presto amicizia.

Siamo nei mesi finali della seconda guerra mondiale. I tedeschi stanno abbandonando l’Italia spinti dagli Alleati che sono sbarcati ad Anzio, ma vogliono portare con loro in Germania alcune opere d’arte che il regime fascista compiacente ha loro concesso.

All’archeologo, declassato a factotum del Ministero dell’Educazione Nazionale per non aver aderito al Partito, viene dato il compito di lasciare Roma e di andare a Bressanone per controllare che i capolavori fossero imballati con cura.

In lui scatta qualcosa e decide, aiutato dall’improbabile compagno di avventura napoletano, di rubare a sua volta i tesori ai tedeschi e di restituirli all’Italia.

A bordo di un vecchio camion, amorevolmente riparato e manutenuto dal napoletano, scenderanno la penisola lungo la dorsale degli Appennini. Il viaggio sarà denso di emozioni ed incontri e il finale, per nulla scontato, saprà sorprendervi.

Sono molte le sfaccettature appassionanti di “Non esistono posti lontani”.

In primis la figura del protagonista. Filippo Cavalcanti è austero, quasi ingessato, con i piedi ben piantati in un sistema di valori tradizionale e una solida cultura classica. Eppure saprà adattarsi ad un mondo che sta cambiando.

Il rapporto tra Filippo e Quintino nasce sotto un pessimo presupposto, ma si sviluppa rapidamente. Potrebbero essere padre e figlio, ma – pur non comprendendosi a pieno – si rispettano ed imparano l’uno dall’altro.

Infine il bellissimo sfondo a tutta la storia, quei panorami dell’Appennino, i piccoli paesi della Toscana e del Lazio, le figure evocate dall’autore, il pastore, il vecchio abate, il mercante… insomma un mondo antico riportato alla luce per fare da coprotagonista nella storia.

Mi mordo la lingua e mi fermo qui per non rubarvi il piacere di scoprire di più.

Non esistono posti lontani
Franco Faggiani
Fazi Editore, Le strade
285 pagg. / 18,00 euro

Una coperta di neve

Il nuovo libro di Enrico Camanni e un avvincente giallo ambientato intorno al Monte Bianco. Protagonista la guida Nanni Settembrini e un’alpinista…

Una coperta di Neve

Mi è oggettivamente difficile non avere un pregiudizio. Enrico Camanni, l’autore di questo giallo, è uno dei miei punti di riferimento per quanto riguarda la storia della montagna e dell’alpinismo. Giornalista e scrittore, è una di quelle voci che seguo regolarmente, sia attraverso la carta stampata che nelle conferenze pubbliche.

Paradossalmente ne ho apprezzato le capacità di romanziere in tutti i molti saggi che ho letto (cito a campione La guerra di Joseph e lo stesso Alpi ribelli), la sua scrittura – senza scivolare nell’epico – riesce a trasformare la Storia in un racconto.

Avevo letto, molto tempo fa, il primo romanzo in cui appariva lo stesso protagonista (La sciatrice, Vivalda Editore, 2006) mi era piaciuto ma non mi aveva lasciato un ricordo profondo, anche perché in quel periodo cercavo storie vere di montagna e non storie di fantasia.

Invece sono incappato in questo giallo nel momento perfetto: stavo leggendo parecchi saggi e avevo voglia di una lettura che mi distraesse.

In breve la storia: Nanni Settembrini è una guida alpina che vive in Valle d’Aosta ed è capo del locale Soccorso Alpino. In questo suo ruolo, viene coinvolto in un intervento a seguito di una valanga che travolge un’alpinista.

I soccorritori riescono ad estrarla ancora viva (seppur incosciente) e la caricano sull’elicottero in direzione dell’ospedale. Ma quando continuano le ricerche seguendo la corda cui era legata, arrivano ad un capo libero senza trovare il compagno.

L’alpinista si sveglia dal coma ma non ricorda più nulla, lasciando il dubbio se fosse sola o meno sul ghiacciaio.

Toccherà a Settembrini, insieme ad una psichiatra incontrata sul luogo dell’incidente (lei e il compagno avevano allertato i soccorsi) ricostruire l’intera vicenda.

Non aggiungo altri particolari del plot per non togliere la suspance alla storia. Ma mi piace segnalare che il romanzo è ambientato intorno al Monte Bianco, si parla di montagna con una proprietà ed una conoscenza davvero rara (e non potevo aspettarmi nulla di diverso da uno scrittore/alpinista come Camanni) ma soprattutto che non si parla di sola montagna.

C’è molta vita in questo “Una coperta di neve”. La storia di Settembrini e il suo passato che torna prepotentemente alla luce. I suoi problemi di uomo divorziato con due figlie molto diverse.

A ben pensarci è un libro tutto al femminile: due figlie, una ex moglie ed una compagna, una madre, un’alpinista vittima dell’incidente, una psichiatra che lo aiuta, un’infermiera burbera che svela il suo lato più umano.

Sembra che Camanni si sia avventurato in esplorazione di una nuova via: quella dell’universo delle donne.

Leggetelo e mi saprete dire…

Una coperta di neve
Enrico Camanni
Mondadori, I gialli
293 pagg. / 16,00 euro

La storia siamo noi?

Un saggio storico che si legge quasi come un romanzo. Harari fa centro di nuovo e ci offre una visione (terrorizzante) del futuro dell’umanità

Homo Deus Harari

Ci ho messo un bel po’ ad iniziarlo, ma sono arrivato in fondo quasi si trattasse di un romanzo più che di un saggio. D’altronde già il precedente Sapiens, Da uomini a dei dello stesso autore, mi aveva stregato.

Yuval Noah Harari è uno storico con una certa predisposizione alla divulgazione. In questo suo saggio, Homo Deus prosegue l’analisi del precedente e, come si evince dal sottotitolo (Breve storia del futuro) tenta di capire cosa ci aspetta.

Ho sempre invidiato lo sguardo dello storico.
Si pongono ad una distanza di sicurezza dai fatti, quasi non ne fossero coinvolti in prima persona.

Harari parte da un presupposto: l’umanità, dopo essersi garantita il predominio assoluto del mondo, ha sconfitto le tre grandi cause di morte che la minacciava di estinguersi nel passato: le guerre, le carestie, le epidemie.

Partiamo dalle epidemie (visto il Corona Virus). L’autore ha scritto il libro nel 2016 e sosteneva che ormai le grandi malattie del passato (vaiolo, peste, influenza spagnola) sono state debellate o sono controllabili. Attualmente si muore più per ragioni legate alla scarsa attenzione del paziente che per una pandemia. E i numeri del covid19, in effetti, gli danno ragione. Anche se ha stravolto la nostra vita, sicuramente non mette a repentaglio la razza umana.
[Qui trovate un articolo dello stesso autore sul Corona Virus]

Anche le carestie sono scomparse: muoiono più esseri umani di diabete che di fame. Similmente per le guerre: pur continuando ad esistere dei conflitti nel mondo, il numero dei suicidi batte il numero delle vittime di guerra.

L’idea di Harari, insomma, è che l’umanità – a meno che non decida di farsi del male da sola – non è più a rischio di estinzione. E può ora puntare ai tre nuovi grandi obbiettivi: l’immortalità, la felicità, diventare dio.

E qui mi fermo, non voglio anticipare altro.

Il bello di questo libro è che ogni teoria è accompagnata da esempi concreti che toccano la quotidianità della nostra esistenza. Si parla delle macchine a guida autonoma di Google piuttosto che dell’impatto dell’intelligenza artificiale sull’economia.

Ovviamente gli impatti a livello globale, non quelli del nostro piccolo mondo individuale.

Eppure, mentre scorrevo le pagine e, francamente, venivo terrorizzato dalle teorie di Harari, venivo stimolato a pensare come tutto ciò si riverberava nella mia vita di ogni giorno.
In più di un’occasione sono stato tentato di dire, mutuando un vecchio slogan pubblicitario del Cynar, “fermate il mondo, voglio scendere!” e subito dopo mi ritrovavo a pensare come sfuggire alle implacabili regole della storia.

Harari immagina un futuro in mano agli algoritmi, dove l’uomo è stato sostituito dalla macchina in tutti i lavori dove si richiede velocità di calcolo o un’enorme capacità di analisi dati.

Nella seconda metà del libro ho iniziato a trovarmi sempre meno d’accordo con lo scrittore che, anche per dare enfasi alla sua teoria, parlava per iperboli ardite (almeno a mio giudizio)… ma nel finale Harari torna a dubitare e questo, oltre a farmelo sentire più vicino, ha rimesso nella giusta prospettiva l’intero volume.

Da leggere. Sicuramente.

Homo Deus
Yuval Noah Harari
Bompiani, Tascabili
547 pagg. / 16,00 euro