Un traguardo affollato di obbiettivi

La maratona che sto preparando è, tra tutte quelle che ho corso, quella in cui sulla linea del traguardo mi aspettano più riscontri.

Quando arriverò a Central Park (notare che ho scritto “quando” e non “se”) vorrei che si fossero realizzati tutta una serie di piccoli sogni personali.

finish line at NYCmarathon
I cavalletti porta medaglie all’arrivo di una maratona di New York

1. Fuori dal Tempo
Non ho obbiettivi di tempo, nel senso che avrei accettato qualsiasi crono fosse venuto, ma naturalmente i ritmi degli allenamenti sono basati su una proiezione finale. Ho corso la mezza a 5’10″/km e i lunghi cerco di farli a 5’20″/km (ancora con molta fatica)… mi aspetto (e spero) di chiudere intorno alle 3 ore e 45 minuti. Il primo dei miei obbiettivi, quindi, è quello di rispettare le previsioni e non perdere troppo tempo lungo la strada.

2. Aver dato tutto
Il secondo obbiettivo, invece, è quello di poter guardare indietro lungo queste 26 settimane di allenamento e di poter dire, in tutta coscienza, che non avrei potuto fare nulla di più. Non voglio poter accampare scuse su allenamenti saltati per troppo lavoro, o sul fatto che pesassi troppo, o che sono stressato da altri fattori. Voglio arrivare al traguardo spoglio di ogni scusa e vestito solo del risultato che verrà.

3. Ricordi di Viaggio
Il terzo obbiettivo è legato al viaggio. L’ho detto molte volte, questo #26W26M è un viaggio triplice: il viaggio della preparazione (26 settimane), il viaggio fisico a New York (in compagnia di almostthere e con lo scopo di vedere NY per bene), il viaggio della maratona (un’esperienza sempre nuova, anche se l’ho vissuta molte volte). Ecco, voglio arrivare a Central Park con nel cuore e negli occhi tutta una serie di emozioni, immagini, conoscenze, amicizie, storie… Spero di arrivare spoglio di pregiudizi e ricco di umanità.

4. Dollari per Emergency
Il quarto obbiettivo è rappresentato dal simbolo del dollaro. Vorrei aver contribuito con almeno un mese di medicinali (costo = 5.000 dollari) ai quattro ambulatori di Emergency presenti nel campo profughi di Arbat in Iraq.
Ci tengo davvero. Non vedo perché, lavorando ogni giorno, possa riuscire a correre più veloce, a perdere peso e non a raggiungere un obbiettivo altrettanto concreto e persino più importante.
[Chiunque può aiutarmi donando qualche euro cliccando qui. Grazie NdA]

5. La medaglia
All’arrivo di ogni gara io butto via la medaglia. O meglio, cerco un bambino tra il pubblico e gliela regalo. Non ho mai voluto collezionarle, per non crearmi dipendenza.
Questa regola vale per tutte le gare che ho fatto, ma non per le maratone. Ho una vecchia tabella a casa su cui sono appese le 34 medaglie delle gare che ho finito.
Per ogni medaglia posso raccontare un aneddoto, un ricordo, una storia.
New York sarà la 35esima.

6. Voglia di ricominciare
L’ultimo obbiettivo è divertirmi. Quando sarò sulla finish line vorrei potermi guardare indietro felice dell’esperienza e con la voglia di ricominciare. L’energia spesa in gara deve tornare trasformata in voglia di ripartire. Perché ogni traguardo, soprattutto nella vita, è una nuova linea di partenza.

33 e non sentirli

Permettetemi di essere un po’ autocelebrativo.

Sabato mi toccava il primo lungo pre-maratona.
Mi ero già avvicinato ai 30 un paio di volte, ma sabato dovevo correre 33 chilometri.
Il ritmo non è ancora così importante, quello conta è stare sulle gambe per tre ore e iniziare a conoscere la fatica che deriva non dall’intensità dello sforzo ma dal suo prolungamento nel tempo.

Sgombro subito il campo: li ho portati a casa.
Ho fatto fatica, forse più di quella che speravo.
Domenica avevo i glutei indolenziti e ancora stamattina sento i polpacci rigidi.

E allora cosa hai da celebrare?

Ho parlato di celebrazione perché vi voglio raccontare l’incredibile evento all’interno del quale ho corso il mio lungo.
E nello specifico di autocelebrazione perché voglio parlare di una manifestazione organizzata dalla società per cui corro: amostthere.

La Milano-Pavia era una gara classica, cui i milanesi erano affezionati: perfetta per preparare le maratone autunnali, con i suoi 33 chilometri dalla Darsena di Milano al centro di Pavia, aveva anche quel profumo di impresa (“Sei andato a Pavia di corsa?!?”) che la rendeva appetibile e il fatto che se ne fossero corse decine di edizioni aggiungeva un fascino di tradizione alla gara.
Purtroppo da qualche anno gli organizzatori avevano dovuto dare forfait. I costi e la complessità logistica…

Con quel pizzico di pazzia che contraddistingue quelli di almostthere, si è deciso di riproporla ma con un nuovo spirito: non più competizione, ma allenamento collettivo.
E’ nato così il #tt thirty training.

Ci siamo trovati alle 7:45 del mattino in Stazione Centrale.
Abbiamo ritirato una sacca gara personalizzata con dentro un numero adesivo e un braccialetto con lo stesso numero e, poiché ad almostthere piace strafare, un po’ di integratori.
8:25 partenza (puntuale) del treno. Frizzi e lazzi in carrozza. Con Danilo Goffi e Michele Ronzulli (che insieme ad Ippolito Alfieri sono gli ideatori di questa cosa) a dare le ultime indicazioni.
8:57 arrivo a Pavia.

briefing
Danilo Goffi tiene il briefing prima della partenza del Thirty Training (ph almostthere)

Ci sono i pacer per i vari ritmi (con le magliette rosse personalizzate).
Partono prima i più lenti (6’23″/km che vale 4 ore e 30 in maratona) e via via tutti gli altri.
Davanti Ippolito con la bicicletta.
Altri angeli custodi in bici seguivano i vari gruppi.
Marco a chiudere in moto e fare da scopa.

Pavia si stava svegliando in un sabato mattina che prometteva pioggia.
Abbiamo attraversato il mercato e in poco più di un chilometro eravamo sul Naviglio Pavese.

La voce di questa manifestazione si era sparsa.
La scelta di almostthere è di essere sempre inclusivi, quindi era aperta a tutti e gratuita a prescindere dalla società di appartenenza.
Alla fine eravamo un centinaio a correre lungo il naviglio.

partenza
Ecco il bel gruppo di runner di tutte le società che hanno partecipato al Thirty Training (ph almostthere)

Il tempo volge al bello (in tutta onestà non so come abbiano fatto a rovesciare il meteo).
Il percorso offre scorci incantevoli, dai residui di un’archeologia industriale fatta di vecchi edifici alla maestosa sacralità della Certosa di Pavia che scorgiamo da lontano.

Nel gruppetto con cui corro ci sono alcune persone che conosco e alcune che vedo per la prima volta, ma è come se ci fossimo conosciuti da sempre.
Chiacchieriamo di gare, di montagna, commentiamo il panorama, il meteo, salutiamo i runner e i ciclisti che incrociamo…
E siamo già al primo ristoro.

Come dicevo sopra, ad almostthere piace fare le cose per bene, tutti i chilometri erano segnati, c’erano ristori ogni 5 km con acqua e dal 15esimo in poi anche con i sali.
In realtà, più che per l’effettiva necessità di bere, a me i ristori servono come traguardi intermedi per spezzare il lungo.
Invece di pensare ai 20 o 15 km che mancano, penso solo ai 3 o 4 che mi separano dai volti amici del ristoro.

Ed in effetti erano proprio amici.
Li avevano soprannominati “santi” e come tali indossavano la maglietta rossa dell’organizzazione (un po’ di sana blasfemia!) e delle candide aureole.
Avevano pronti per noi degli shottini di acqua o di sali (alcuni pensavano si trattasse di grappa o spritz) e, soprattutto, fungevano da punto di raccolta: se qualcuno era in difficoltà avrebbe potuto rientrare in macchina con loro a Milano (servizio navetta personalizzato in caso di ritiro).

Via via che passavano i chilometri la mia baldanza iniziava a sparire.
Il Naviglio scorre da Milano a Pavia quindi, facendo il percorso inverso, la strada è tutta in leggera ma continua salita.

Patrizia (compagna di squadra e di trasferta a New York) procedeva tranquilla, io cominciavo a sentire la fatica.
Danilo, che ci seguiva in bicicletta passando da un gruppo all’altro (avrà fatto 70 km!) ha la capacità di manifestarsi sempre quando io sono in crisi.
“Dai Franz, non vorrai mica mollare adesso! Raddrizza le spalle, non trascinare i piedi…”

Al 26esimo chilometro ci viene incontro Alessandro (Bertani, vicepresidente di Emergency che con Ippolito Matteo e me forma il quartetto del progetto #26W26M) che oggi deve fare solo una decina di km in scioltezza.
Mi raccatta e mi accompagna fino in Darsena dove c’è un mega comitato di accoglienza, con tifo, fotografi, ristoro finale e, ovviamente, le nostre borse con il cambio che avevamo affidato agli organizzatori a Pavia.
“Certo che avete organizzato le cose in grande, ci sono gare con meno servizi che qui” commenta Alessandro facendomi inorgoglire della società per cui corro.

arrivo
Alessandro Bertani (dx) scorta Franz Rossi all’arrivo in Darsena durante la Thirty Training (ph almostthere)

Ecco, i 33 chilometri li ho fatti e, in totale onestà non posso dire non sentirli (adesso).
Ma durante la splendida mattinata di sabato sono stati un piacere, divertimento puro.

Sono grato a Michele e Ippolito per lo sforzo organizzativo.
E sono orgoglioso di fare parte di almostthere.
Non solo perché il suo nome è diventato sinonimo di qualità negli eventi sportivi.
Non solo perché continuano a proporre idee innovative e divertenti (cito a caso: la corsa nei musei, la almostbeer, le nottate in montagna con il gruppo dis’ciùles).
Ma soprattutto perché tutti i soci che non hanno corso il lungo sabato mattina li ho visti ai banchetti dei ristori, in bici sul percorso, all’arrivo a fare festa.

Ecco cosa significa per me fare sport: amicizia e condivisione di valori.
almostthere è sinonimo di tutto ciò…

PS New York è sempre più vicina!

La magia della gara

Danilo aveva deciso che voleva iniziare ad inserire qualche gara, tanto per abituarci all’idea, ma io non ero molto d’accordo.
Pensavo che fosse più comodo fare lo stesso qualche chilometro tirato, ma nei nostri parchi.

Però c’era la Mezza di Monza, era l’occasione per correre dentro all’autodromo dove di solito sfilano Vettel e Hamilton, erano due anni che non mi cimentavo su questa distanza… insomma mi sono fatto convincere.

Domenica mattina, arrivato a Monza, ho iniziato a maledire me stesso.
C’era la coda per avvicinarsi al parco, pioveva un po’ ma le previsioni davano acqua in abbondanza, d’altronde so benissimo che parte dell’allenamento è porsi un obbiettivo e raggiungerlo, così anche solo presentarsi al via quando sarebbe stato più comodo restare a letto, mi sembrava una piccola vittoria.

Così riflettendo, sono arrivato al punto di ritrovo con il mio gruppo.
Sbrigate le formalità del ritiro pettorali, ho chiesto a Danilo che ritmo voleva impostassi.

Dentro di me, sulla scorta dei lunghi delle scorse settimane, temevo che avrei fatto fatica a tenere i 5’40″/km e chiudere in due ore secche.
Ma il coach ha detto che sarei dovuto stare sui 5’10” al massimo 5’15” che fatti due rapidi calcoli significava 1 ora e 50 al traguardo.
Alle mie rimostranze mi ha detto: “Cosa c’entra quello che fai in allenamento, questa è una gara, qui entra in gioco la magia”

Pieno di dubbi sulla “magia della gara” sono andato a cambiarmi insieme ad Alessandro e Fabio (che doveva tenere un ritmo simile al mio).

Intanto Giove pluvio decide di ricordarci che è lui che comanda e scarica sulla massa dei partenti tutta l’acqua che si è tenuto in pancia negli scorsi mesi.
C’è anche un po’ di vento e la temperatura si aggira intorno ai 14 gradi… insomma perfetta per correre!

Siamo in tanti alla partenza (che era comune per la 10K, per la 21 e per la 30) così saluto un po’ di amici e, partendo dall’ultima gabbia, inizio a risalire il gruppo.

Mezza di Monza
Con Fabio e Patrizia dopo l’arrivo, bagnati e contenti

E’ curioso correre sulla pista che hai visto tante volte in televisione.
La chicane della partenza, le varianti, riconosci i pezzi di pista e non ti capaciti come mai quei bolidi della Fornula1 inpieghino un battito di ciglia a passare quei lunghissimi metri che noi percorriamo così lentamente.

Il gps non ha preso il segnale alla partenza, quindi lo uso solo come cronometro.
Aspettavo il cartello del quinto per controllare il passaggio, ma mi scappa nella confusione.
Intanto da dietro sentiamo i commenti ad alta voce di uno dei pacer dell’ora e 50. Siamo giusti, quindi…

Con Fabio decidiamo di stare davanti al gruppone che si è formato intorno alle lepri.
Ci sono parecchie curve e strettoie, qualche discesa e salita, insomma meglio non restare imbottigliati.

Il mio gps si è ripreso e mi conferma la sensazione di andare veloce, più vicini ai 5’05” che ai 5’10″/km.
Chiedo conferma a Fabio che annuisce. Ma ci sentiamo bene e decidiamo di proseguire così.

Si esce dal Parco di Monza e si rientra, fatico ad orientarmi ma riconosco molti dei posti dove passiamo.
Il decimo chilometro arriva prestissimo, con Fabio decidiamo che stiamo bene e rimandiamo la decisione sulla strategia di gara al 15esimo.

Intanto la pioggia torrenziale si è trasformata in una normale pioggerellina autunnale.
Correre è un piacere, temperatura perfetta.
Ascolto il commento di una coppia venuta a passeggiare: lui le fa notare che abbiamo le scarpe bagnate e mi pare di cogliere una punta di rimprovero, come se dicesse che non si dovrebbe correre così.

In realtà ho i piedi caldi (anche se non asciutti) e sono felice.
Sto spingendo ad un ritmo che mi fa provare l’ebbrezza della velocità senza uccidermi.
Mi sembra di poterlo tenere fino alla fine. E questa sensazione mi rincuora.

Al quindicesimo siamo ancora dietro ai pacer.
Il loro compito è di arrivare esattamente all’ora e cinquanta dallo sparo, significa che dovevano recuperare quasi due minuti e lo hanno fatto (ecco spiegato il ritmo più veloce).
Adesso sanno di poter gestire il vantaggio, rallentano un po’ e ai ristori aspettano il loro gruppone.

Decido di tenere il ritmo più veloce cui avevamo corso fino a quel momento.
Superiamo le lepri e affrontiamo gli ultimi sei chilometri.

Fabio sta molto bene, corre rilassato, ne ha più di me.
Gli consiglio di attendere il 18esimo e poi di accelerare.
Quando aumenta cerco di tenerlo nel mirino, in modo da aumentare anch’io.

Ultima curva e ultimo sottopasso prima di rientrare in pista per il traguardo, ma ci attende una sorpresa.
La pioggia ha reso impraticabile il passaggio e bisogna salire una breve scalinata e ridiscendere dall’altra parte.
Mi piace, mi ricorda le salite delle mie montagne, salgo correndo e scendo ancor più veloce.

Trovo due amici, Alessandro e Daniela, e ripartiamo per l’ultimo chilometro.

Aumento ancora. Come non avevo fatto mai.
Non sono un agonista e non mi piace fare la volata dei poveri, ma oggi corro contro il tempo.
Sento lo speaker annunciare lo scoccare dell’ora e quarantacinque, ma sono ancora molto lontano.

Finalmente vedo i gonfiabili e riconosco quello del traguardo.
Cerco di tenere quel ritmo fino in fondo e chiudo persino un po’ più veloce di quanto Danilo mi aveva chiesto.

Fabio mi ha dato una trentina di secondi, gli altri compagni di allenamento sono davanti, ma io sono felice.

Non soddisfatto, proprio felice.

Felice per un crono inaspettato.
Felice che gli allenamenti stiano procedendo in linea con quanto previsto.
Felice di essere uscito dal letto domenica mattina ed essere venuto qui a Monza a dimostrare a me stesso che New York è un po’ più vicina.

Il rush di endorfine

Come tutti i bravi drogati, anche noi runner abbiamo bisogno di ricevere, con una certa regolarità, la nostra dose.

Siamo dipendenti dalle endorfine, una sostanza prodotta dal nostro corpo in condizioni particolari (ad esempio al termine di uno sforzo fisico intenso o durante l’orgasmo).

Per dirla con parole povere, le endorfine (che regalano una sensazione di stanco appagamento) sono il premio che la Natura ha previsto quando facciamo qualcosa in linea con i suoi progetti su di noi (nel caso del sesso, Madre Natura pensa alla riproduzione della specie; nel caso della fatica, ci premia perché abbiamo messo fine ad uno stress fisico per l’organismo).

Noi runner viviamo alla perenne ricerca della dose di endorfine.
Anche quelli più lenti, quelli che dicono “io corro solo per poter mangiare la pasta senza sensi di colpa”, vi confermeranno che la sensazione di appagamento durante la doccia è il primo premio per aver fatto il loro dovere… la dose di endorfine è arrivata!

gruppo allenamento
Il gruppo di allenamento D41! di almosthere, la mia società sportiva

Ieri avevo un allenamento bello intenso.

Solito riscaldamento lungo, poi un 3000 tirato a ritmo da 10K, 5 x 300 a tutta (per riempire le gambe di acido lattico), un 2000 più veloce del 3000 (per simulare la stanchezza di fine gara).
Alla fine ero molto soddisfatto, le ripetute in pista erano venute regolari e piuttosto veloci, e nel 2000 finale ero riuscito a tenere una velocità maggiore di quanto previsto.

Le endorfine scorrevano a fiumi, non solo sotto la doccia ma anche dopo, quando seduto sul divano mi guardavo un episodio della nuova stagione di Vikings.

Una volta a letto, mi giravo e rigiravo, cercando un po’ di pace per le mie gambe inquiete ed anche stamattina, appena svegliato, avevo quella sensazione di indolenzimento post allenamento tirato che noi tutti conosciamo bene.

E mi sono reso conto che anche questa è una sensazione che bramo, della quale sono dipendente.
Non c’entra la fisiologia o la chimica del corpo umano.
E’ pura psicologia.

Sentire le gambe stanche mi premia perché mi conferma che sto facendo il mio dovere.
Che sto inerpicandomi lungo la scala degli allenamenti verso l’agognata meta.
Che anche ieri ho fatto un passo avanti verso la maratona.

Quando ci poniamo un obbiettivo così sfidante, riusciamo a focalizzarci, a rendere piacevole non solo l’arrivo al traguardo ma anche ogni tappa del viaggio.

Perché New York e tutto il progetto “26 weeks for 26 miles” è un triplice viaggio:
– il viaggio delle 26 settimane di allenamento
– il viaggio a New York
– il viaggio di 42.195 metri tra il Verrazzano Bridge e il Central Park

Ho le gambe pesanti ed il cuore leggero.

E mi piace l’idea di condividere con voi questa sensazione!

La volpe, l’uva e la Grande Mela

E’ da quando ho deciso di lanciarmi in questo progetto, #26W26M, che ho in mente un argomento spinoso.

Io sono uno di quegli snob di sinistra, quelli che ci godono ad essere disallineati, fuori dal coro.
Quelli che si definivano, con parola ormai fuori moda, “alternativi“.
Non leggo il best seller, non vado a vedere il cinepanettone, rifuggo le località di vacanza alla moda.
E sono sempre stato un po’ (stupidamente) orgoglioso di questo mio essere fuori dal coro.

Poi, invecchiando, mi sono reso conto che alla fine passiamo un po’ tutti sotto gli stessi ponti, finiamo per omologarci (magari nel voler essere per forza “diversi”), e ho finalmente capito che non c’è alcuna differenza tra quelli che comprano tutti lo stesso prodotto perché va di moda e quelli che NON lo comprano per lo stesso motivo.

Le cose bisogna provarle, e solo dopo decidere se valga o meno la pena di viverle.

Questa lunga premessa per dire che, appena ho iniziato a correre le maratone, sono stato (come tutti) oggetto della classica domanda: “E New York? L’hai fatta New York?”
Da bravo dissidente della corsa ho subito chiarito che non l’avevo fatta e non mi interessava farla.
Infilarsi in un serpentone umano, aspettare sei ore di partire, fare la coda per uscire dal percorso di gara, pagare il pettorale 10 volte tanto quelli nostrani… non faceva per me.
E quando sentivo i racconti entusiasti degli amici di ritorno dagli States, sorridevo con un’aria di (quasi) superiorità.

volpe
La volpe e l’uva secondo Zerocalcare (un grande)!

Poi, come dicevo, mi sono ravveduto.
Ho iniziato a pensare che almeno una volta l’avrei dovuta correre… ma nel frattempo avevo lasciato la strada per la montagna, l’asfalto per i sentieri, e la mia New York era Chamonix (con il suo UTMB, che è l’equivalente di NY nel mondo del trail).
Finalmente, un paio d’anni fa, ho incrociato almostthere (che adesso è la società per cui corro) e il suo modo “alternativo” di vivere la maratona della Grande Mela: un gruppo di amici, un’agenda di attiività che va dalla visita al MoMa all’allenamento collettivo… così ho cominciato a pensarci e a voler prender parte a questo evento.
Il resto è storia: il pettorale di Emergency e la voglia di ritornare ad impegnarsi sulla distanza regina.
26 settimane per coronare il sogno di tagliare il traguardo a Central Park.

Parto per la Grande Mela, trepidante come un ragazzino al suo primo appuntamento (o un runner alla prima maratona).
E lascio a casa la mia vecchia amica volpe che disprezza l’uva che non può raggiungere.

Stamattina, facendo la mia ora di corsa lenta collinare (tutti mi dicono che NY è una maratona muscolare!), sono stato preso persino dalla paura di non farcela.
Ora, se non è rispetto questo!!!

Ben venga New York, dunque.
Mancano solo 9 delle 26 settimane iniziali, e un piccolo brivido possiamo permettercelo.

PS stesso titolo di questo blog ha anche un intero capitolo del mio terzo libro: Niente panico si continua a correre

Il mondo in 400

Ieri sera la tabella di allenamento prevedeva un bel 6 x 1000, quindi dopo il canonico riscaldamento intorno alla Montagnetta sono entrato al Campo XXV Aprile.

La pista è un mondo a sè.
Autoreferente, sganciato dal resto mondo.
Il GPS non serve più, basta il vecchio cronometro.
Perfino il concetto stesso di correre si modifica: fuori significa viaggiare velocemente (a volte il più velocemente possibile) da un posto all’altro, dentro si perde il senso del viaggio, dell’esplorazione.
E resta la corsa nel suo senso più puro.

Non è un caso che in pista vedi i veri atleti, ragazzi e ragazze il cui corpo è stato modellato dalla fatica e dal vento.
Non corrono, scivolano leggeri, volano sfiorando il tartan.
Sono movimento che diventa danza, potenza che nella bellezza del gesto si fa poesia.

E poi ci siamo noi, i tapascioni che arrancano a metà della loro velocità.
Noi corriamo pesanti, le caviglie bloccate, le ginocchia rigide, senza sollevare i piedi da terra.
Eppure anche noi, in quel tempio della velocità, ci sentiamo un po’ più atleti, dimentichiamo di contare i chilometri e pensiamo ai giri di pista.

Un’altra cosa che affascina del campo sportivo, infatti, è che è universale.
Un giro di pista è lungo 400 metri. Che tu sia a Pechino, a San Pietroburgo, a Milano o a Formia, fuori il mondo cambia, dentro è lo stesso.
I segni lungo il cordolo che indicano le partenze delle varie gare, 200, 4×100, 1500, 5000.
Numeri che hanno un potere magico per gli appassionati di atletica.
Numeri che si trasformano in minuti e secondi nell’epopea condivisa da tutti e in quella personale.
“Mi ricordo i 19″72 di Mennea” “La prima volta che Bannister andò sotto i 4 minuti sul miglio” “Ai Giochi della Gioventù avevo un 12″5 secco sui 100, poi ho dovuto smettere”.

Franz al XXV aprile
Al campo XXV Aprile, esausto dopo il 6 x 1000 (ph Gianluca Moreschi)

Anche i gesti della pista sono simili a tutte le latitudini.
Il riscaldamento lento dei velocisti, coperti con la tuta, con quei movimenti pigri che ricordano quelli dei felini.
I movimenti caricaturizzati e buffi delle andature, il pinocchietto, lo skip, la corsa calciata…
La rincorsa a passetti brevi dei saltatori, che formano un mondo a parte e che si scambiano non si sa quali segreti intorno al materasso del salto in alto mentre i velocisti si muovono tutti assieme come un branco nel rettilineo dei 100 metri.
Persino le specialità sono facili da riconoscere basandosi sui fisici: la mole imponente dei lanciatori, la grazia dinoccolata dei saltatori in alto, i glutei possenti dei velocisti e le fibre lunghe dei mezzofondisti.

A tutto questo pensavo, mentre giravo alternando un mille e un 400 di recupero.
Il caldo la faceva ancora da padrone e il crono segnava impietoso un decadimento delle mie prestazioni tra una ripetuta e l’altra.
Eppure io combattevo la mia personale battaglia.
Contro il caldo.
Contro l’acido lattico che mandava segnali di resa al cervello.
Contro la mia testa che mi diceva di smettere.

Giravo sulla prima corsia e guardavo i ragazzi che volavano.
Mi chiedevo cosa ci facessi lì, quasi fosse un sacrilegio, un’offesa agli dei della velocità.
Ma c’è spazio per tutti in quei 400 metri.
Un mondo intero, con tutte le sue diversità.
Un popolo accomunato, non dal ceto o dal censo, non dalla razza o dall’ideologia, ma dalla passione pura per questo meraviglioso sport.

Correre all’alba

Per noi che corriamo al mattino presto, questo è un momento dell’anno molto speciale.

La sveglia suona alle 6:00, tu magari hai aperto gli occhi alle 5:58 e sbirci il led lampeggiante pensando che per ancora due minuti puoi goderti il letto.

Poi tutto precipita.

Allunghi il braccio e zittisci l’allarme.
Indossi, ancora seduto sul letto, pantaloncini, maglietta e calze.
Recuperi le scarpe e vai in bagno.
Ti siedi sul water ed intanto allacci le scarpette.
Prendi le chiavi di casa e sei fuori.

Ma è ancora buio.

Allora, mentre lo fai partire, controlli l’ora sul gps che ti rassicura.
Inizi a correre lento, per scacciare i residui di sonno e decidi di avviarti verso la Montagnetta.
Il cielo muta rapidamente colore e passa dal viola, al rosso, all’arancione fino quasi ad assumere toni dorati.
Con un ultimo sprint sei in cima al Monte Stella e osservi la tua città.

La skyline di Milano all'alba
La skyline di Milano all’alba

Milano è come una donna, sa modificare il suo aspetto a seconda delle occasioni.
La sera ti seduce e ti lascia senza fiato.
Di giorno indossa la maschera del business.
Ma al mattino, appena sveglia, ti mostra la sua bellezza naturale.
E ti fa innamorare.

Poi in discesa verso casa, i pensieri già proiettati verso gli impegni della giornata.

Noi che corriamo al mattino lo sappiamo che questo è il tempo del cambiamento.
Le mattine saranno sempre più fresche e buie fino a quando, ad ottobre con il cambio dell’ora, precipiteremo nel freddo oscuro dell’inverno.

E correre all’alba tornerà ad essere un dovere e non un piacere.

La perfezione sta nei dettagli

In questi mesi ho avuto modo di confrontarmi spesso con Danilo [Goffi, NdR] a proposito dei miei piani di allenamento, e – più in generale – sul modo di prepararsi ad un obbiettivo.

Ci sono alcune cose in lui che mi hanno colpito subito.

In primis la totale dedizione a ciò che sta facendo: quando Danilo ha un obbiettivo, sia una gara di corsa o l’ottenere dei biglietti per uno spettacolo teatrale sold-out, mette tutto se stesso nel tentativo di raggiungere quel risultato. E alla fine, l’abbia raggiunto o meno, può essere sicuro di aver fatto tutto ciò che era in suo potere.

Questo è lo spirito con il quale volevo affrontare il mio progetto 26 weeks for 26 miles e quindi mi sono trovato da subito in sintonia con lui.

Ma sono molte altre le cose che ho imparato da lui, ed oggi riflettevo su una in particolare.

Tutto è iniziato partendo dalle mie scarpe.

Ma quanto è bello il primo allenamento con un paio di scarpe nuove?

Io ho una mia regola, cambiare spesso modello di calzatura.

Deriva dal fatto che correndo in montagna (con scarpe da trail) e su strada (con scarpe da running normali) ho introdotto già una diversificazione.
A questo si aggiunga il fatto che “provo” nuove scarpe quando le vecchie non sono ancora da buttare…
L’effetto finale è che spesso faccio un allenamento con un modello e quello dopo con un altro.

Sono convinto che, così facendo, non “abituo” il corpo a correre sempre nello stesso modo, evito di correggere posturalmente dei “difetti” legati alla calzatura, e più in generale, non soffro di quella sindrome del “Hanno tolto la mia scarpa del mercato, e adesso io cosa faccio!” così comune tra noi runners.

Ma nell’ultimo anno, complice la mia latitanza dalle corse, mi ero fermato su un vecchio modello e non avevo più cambiato.
Da questo il bonario rimprovero di Danilo che mi suggeriva di usare scarpe meno scariche di quelle che indossavo.

Quando gli ho chiesto un consiglio, mi ha detto di scegliere delle scarpe con cui stavo comodo, che fossero protettive, ma che pesassero meno di 350 gr.
Al che, io gli ho sorriso e scherzando gli ho detto che con i chili di troppo nel mio girovita, 100 grammi non fanno la differenza.
Ma lui mi ha prontamente fatto notare che anche 50 grammi, ai piedi, significano uno sforzo extra per le nostre gambe ben superiore ai chili di troppo nel tronco…

Ecco, questa è la differenza tra essere allenati da uno che sa di cosa parla e seguire delle tabelle trovate sul web.
Questi sono i dettagli che fanno la differenza.
Un po’ come quando mi corregge i movimenti della corsa, o sa – senza bisogno che io glielo dica – se sono in crisi.

Da Danilo ho imparato l’importanza di curare i dettagli.

Le scarpe, l’alimentazione, tenere il ritmo giusto anche nel riscaldamento, la periodicità delle giornate di riposo.

E ho capito che per avvicinare la perfezione in qualsiasi progetto, non conta tanto lo sforzo grandioso che ci si applica, ma anche e soprattutto la cura maniacale dei dettagli.

Per tornare alle mie scarpe, alla fine mi sono orientato sulle nuove Wave Sky della Mizuno, una marca con la quale ho corso spesso nel passato e che mi ha dato buone soddisfazioni sia nel trail che su strada.
Sono arrivate giusto ieri e stamattina ho fatto la prima uscita con prime sensazioni decisamente positive.

Naturalmente sono solo i primi 8 km e mezzo, dovrò testarle durante queste prossime settimane di ferie prima di decidere se saranno loro ad accompagnarmi alla New York City Marathon di Novembre.

Perché – come ricorda Danilo – è sempre meglio testare bene il materiale in allenamento prima di usarlo in gara…

Di battaglie e di guerre

Oggi ho perso una battaglia.
Sveglia alle 6:00 per beneficiare della frescura della notte.
In programma 4 km di corsa lenta e poi 2 volte un 3000 a 4’45” (che per la mia condizione attuale è un bell’andare).

Già scendere dal letto ed indossare scarpe e canotta è stata dura.
Nelle gambe ho ancora i 1000 metri di dislivello positivo accumulati mercoledì sera in un’uscita con gli amici.

moregallo
Foto dalla vetta del Monte Moregallo, con gli amici del gruppo Dis’ciùles…

Scendo in strada e decido di allungare un po’ il riscaldamento (alla fine saranno 6 chilometri).
Le gambe iniziano a sciogliersi così azzero il gps per il primo 3000.

Pronti via, e ho il cuore a mille.
Mollo dopo aver corso poco più di 300 metri.
Ritorno al punto di partenza al passo.
Provo a fare un po’ di stretching e riparto un po’ più tranquillo.
In effetti le cose vanno meglio.
La velocità si assesta intorno a quella che dovrei tenere.

Il primo mille mi sento bene, il secondo tengo botta.
Ma poi sono di nuovo in difficoltà.
La strada sembra in salita.

E mi fermo quando mancano poco più di 300 metri all’arrivo.

Avete presente quella sensazione di sconfitta?
Qualche metro prima mi sembrava che non avrei potuto fare neppure un altro passo.
E subito dopo mi maledico per essermi fermato.

Fa niente…
Torno camminando al punto di partenza (mi alleno su un anello di circa 3.400 metri), ancora un po’ di stretching e riparto.

Faccio fatica ad alzare le ginocchia.
Mi sforzo di tenere lo sguardo dritto avanti, continuo a guardare per terra.
Dopo 600 metri mi fermo, aspetto 30 secondi e riparto più lento, definitivamente sconfitto.

Alla fine sul diario di oggi scrivo:
– 6,5 km riscaldamento / corsa lenta
– 2,7 km a 4’52″/km di media
– 3 km di defaticamento a 5’30″/km

Oggi ho perso una battaglia.
Mia nonna diceva: “Soldato che scappa è buono per un’altra battaglia” e forse dovrei farmene una ragione.

Cerco di analizzare i motivi (il caldo? la fatica della montagna?) ma mi sembrano tutte scuse.
Mi consolo dicendomi che almeno ho messo in cascina 12 chilometri…

La verità è che ci sono le giornate storte e non ci puoi far niente.
Solo lasciarle passare e tornare, al prossimo allenamento, più determinato di prima.

La vera guerra è chiudere ogni ciclo di allenamento con dei miglioramenti sensibili.

La singola seduta la rimedierò già domenica, quando mi aspetta un bel lavoro in pista.

E allora com’è andata?

Era uno di quei momenti che temevo.
Tornare a gareggiare equivaleva a guardarmi allo specchio, fare il punto della stagione.
Se aggiungete anche la classica domanda “E allora, com’è andata?” del lunedì mattina che ti fa sentire in un perenne stato da pre-interrogazione scolastica, beh allora la voglia di farlo era davvero poca…

Però, almeno questa volta, posso dire che è andato tutto bene.
(E già lo so che ci sarà una prossima gara in cui pagherò questo ingiustificato atteggiamento festante).

Domenica sera, con il la mia società sportiva, abbiamo partecipato alla Magnolia Run.
Una corsa di poco più di 6 chilometri intorno all’Idroscalo di Milano organizzata da “De ran clab” e “Purosangue Athletics Club” (un progetto davvero bello che seguo da qualche anno).
E’ una non competitiva. Quindi niente pettorali, niente classifica finale e, oggettivamente, livello competitivo basso.
C’erano alcuni atleti molto forti che hanno corso per il piacere della compagnia più che per far gara davvero.

MagnoliaRun
Magnolia Run: Sempre belli noi di almostthere PRIMA della gara…

Comunque, tutto ciò detto, alle 19 meno qualche minuto ci siamo messi in posa sotto il gonfiabile per le foto di rito (ed essendo in gruppo con Danilo, eravamo in prima fila).
Mi ero riscaldato per bene, ma sentire il gruppo che scalpitava alle mie spalle ansioso di partire mi ha fatto concentrare sul primo problema: dove infilarmi per non essere schiacciato?

Lo speaker annuncia il conto alla rovescia, e siamo in gara.

Mi ero ripromesso di non guardare mai il gps, ma di basarmi esclusivamente sulle sensazioni.
Conoscendo molto bene il giro, sapendo in anticipo dove si trovavano i tratti in leggera salita o lo sterrato, sapevo come dosarmi.
E così ho fatto.

Dopo il cartello del secondo chilometro (il primo non l’ho neppure visto) mi sono assestato sulla velocità di crociera (o meglio sulla quantità di fatica che pensavo di poter mantenere fino alla fine).

Nel frattempo avevo iniziato a far conoscenza con gli altri concorrenti.
Chi non corre stenta a crederlo, ma in gara – anche quelle super veloci in cui non si parla – si crea uno speciale rapporto con i “pari-passo“, cioé con le persone che corrono al tuo stesso ritmo.
Io avevo individuato tre possibili lepri, persone da tenere nel mirino, un gruppetto di filippini con un signore anziano che era partito in prima fila, un ragazzino di 10/12 anni, e Fabio, mio compagno di squadra capace di ritmi ben più veloci del mio, ma che potevo cercare di tenere per avere uno stimolo in più.
Poi nel corso della gara ero stato raggiunto e superato da un bel gruppo di persone. Alcune se ne erano andate, ma altre si erano assestate su un ritmo simile al mio.

Al secondo chilometro avevo raggiunto il signore anziano (ti piace vincere facile, neh?), nella salitella in prossimità della prima grande curva avevo raggiunto il ragazzo, Fabio invece progrediva inesorabilmente lasciandomi indietro.
Mi raggiunge la prima donna in gara (ripeto non c’erano atleti di livello elevatissimo, di solito fatico a tenere il passo della 30esima delle concorrenti) e la osservo sfilare via.
La seconda donna mi raggiunge al cartello del terzo chilometro, è accompagnata da un amico e decido di provare a tenere il suo passo.
So che Claudia, altra compagna di società, è partita subito dietro di me e dovrebbe procedere più o meno al mio ritmo, quindi mi faccio un appunto mentale di contare le donne che mi supereranno per incitarla.

Sullo sterrato inizio a faticare.
Decido di calare un po’ il ritmo e resisto alla tentazione di spiare l’orologio.
Al quarto chilometro punto due ragazzi con la maglia filippina (erano presenti in gran numero) e cerco di non lasciarli andare via.
Sembrano andare tranquilli, ma li avvicino in discesa e li perdo in salita.

Mi supera la terza donna, il suo compagno la incita “dai che al quinto andiamo via in progressione…”
Provo a stare con lei, visto che sembra essere in difficoltà, ma il seguito proverà che avevo torto.

Insomma è un continuo attaccarmi a qualcuno che mi supera da dietro. Ma non riesco a tenere i loro ritmi.
Un ragazzo con la barba mi supera, lo raggiungo e lo risupero, dopo 50 metri è di nuovo lui ad andare avanti.
Intanto siamo arrivati ai due ponticelli che precedono l’arrivo.
I due ragazzi filippini hanno magicamente in mano una bandiera che sventolano trionfanti.
Un ultimo sforzo – mi dico – e finalmente raggiungo gli altri componenti della squadra sotto il gonfiabile dell’arrivo.

Danilo mi prende i giro: “perché non hai fatto la volata? sei davvero un maratoneta!”
Io fermo il cronometro e non riesco a credere al tempo finale.
Ritmo medio 4’38″/km meglio di qualsiasi più rosea previsione.
Se mi avessero chiesto a cosa puntavo avrei risposto che sarei stato felice di stare di un paio di secondi sotto i 5’/km.

Ebbro di endorfine vado al ristoro ed incontro un sacco di amici, Claudio, Mauro, incrocio perfino Max Monteforte (fondatore dell’associazione Purosangue) con il quale mi complimento per la bella manifestazione.
E poi di corsa alla macchina per tornare a casa e godermi una serata con mia figlia…