#26W26M /1: Il viaggio

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la prima di quattro…

Se qualcuno l’avesse capito, me lo può gentilmente spiegare?
Ogni volta che faccio un viaggio intercontinentale in aereo mi tocca fare delle levatacce.
A prescindere dal fatto che il volo parta tardi (tipo le 9 nel mio caso) tocca lo stesso puntare la sveglia alle 4:30.

Tre ore prima in aeroporto per farsi chiedere dalla ragazza al check in “ma quand’è l’ultima volta che è andato fuori Europa?” “e si è divertito?” “che posti ha visitato?”
E’ la nuova prassi per verificare con un breve interrogatorio (la chiamano intervista, ovviamente) la tua identità.
Poi ti chiedono cosa fai di mestiere e per che azienda lavori.
Danilo (che è un carabiniere) si è persino spazientito a sentirsi chiedere “Ma cosa fa un carabiniere?”…

Ci siamo imbarcati con 50 minuti di ritardo, e mentre ognuno di noi pensava come avrebbe potuto utilizzare meglio quei 50 minuti sotto le coperte, l’aereo è rullato sulla pista e l’avventura è iniziata.

Siamo arrivati al Kennedy (anzi al geieffcchei, come si dice qui) e le procedure di sbarco sono filate via lisce e veloci, nonostante la sera prima ci fosse stato l’attacco sulla ciclabile da alcuni considerato di matrice terroristica e di conseguenze tutte le misure di sicurezza erano state alzate.
Un po’ straniti dal troppo cibo, dalla troppa forzata inattività, da quella sensazione strana per cui il corpo ti dice che è sera ma il sole è ancora alto nel cielo, siamo saliti sul pulmino predisposto da almostthere e ci siamo infilati nella nostra prima coda americana.

New York ci si è palesata per simboli.
Dai vecchi scuolabus scassati, ai taxi gialli, dai truck giganteschi agli operai con elmetto e giacca gialla nei cantieri.
E poi sono apparsi i primi cartelli stradali che indicavano luoghi che risvegliano racconti e memorie.
Flushing Meadows con il più grande impianto per il tennis del mondo, QueensStaten IslandBrooklyn alcuni dei quartieri che attraverseremo nella maratona.

L’autista del pulmino ci regala un tuffo al cuore extra, quando decide di fare una deviazione e di portarci sopra il Queensboro Bridge (The Bridge, per i maratoneti) dove i senatori, quelli che avevano già corso a New York, avevano buon gioco a terrorizzare noi novellini “Passeremo nell’altra carreggiata” “Una salita eterna” “Dopo il ponte entri nel Maracanà”

Il riposo del viaggiatore (aka jet lag shock)
Il riposo del viaggiatore (aka jet lag shock)

Finalmente all’Empire Hotel, a due passi da Columbus Circle e dall’ultima curva prima del rettilineo finale in Central Park.
Sono stanco, ma mi bastano dieci secondi per entrare nella stanza, mollare tutto sul letto, fare un paio di scatti dalla finestra e riprecipitarmi fuori per esplorare la città.

I miei compagni di avventura (siamo ancora solo una decina, gli altri arriveranno il giorno successivo) si affidano alla guida esperta di Ippolito.
L’idea sarebbe di riuscire ad attendere fino alle 20 per mangiare qualcosa e poi tornare a dormire.
Ma dopo aver attraversato un paio di Avenues siamo già a caccia del Burger Joint (indicato come il posto migliore per mangiare un hamburger persino da Neil Carey, protagonista dei romanzi di Don Winslow).

Non faccio a tempo a capire che il grande edificio classicheggiante che ha attirato la mia attenzione è la Carnegie Hall, che vedo l’ultimo dei miei compagni infilarsi nella ruota girevole di un grande hotel.
Gente alla moda, seduta ai tavolini di una lussuosa sala da thé.
Vestiti che non sono pretenziosi, ma che pur nella loro semplicità fanno capire di essere costosi. Belle mamme, bei papà, bei bambini… tutto sembra bello in quel posto.
Arriviamo alla reception dell’hotel e proprio mentre io mi domando cosa siamo venuti a fare qui, Ippolito curva bruscamente a destra e sparisce dietro una tenda rossa.
Una porticina ci introduce in un antro, rivestito con perline di legno, alcuni tavoloni lungo i muri e un unico grande bancone dove le persone attendono paziente mente in fila.

E’ il paradiso del burger.
Un posto alla moda, che viene direttamente dal passato, incastonato in una delle gemme di Manhattan.
Si deve far baruffa per sedersi. Alcuni di noi fanno la fila, le ragazze le mandiamo avanti per prendere posto, ma interviene Ippolito per difenderle dalle mire di tre ragazzotte locali.
Io studio il menu (che è un foglio di carta da impacco scritto a pennerelli e appeso sul muro) cercando qualcosa di vegetariano.
Ordino, pago e aspetto che chiamino il mio nome.
Alcuni ragazzi si stringono e mi fanno posto in un bancone.
Scoprirò poi che sono italiani…

Il panino più buono della storia dei panini.
Invece della carne c’era il cheddar alla piastra, ma era unto il giusto e ricco di salse e cipolla.
Peccato solo che, a causa del mio digiuno alcolico, ho dovuto declinare la birra.

Fuori dal Burger Joint il gruppo si divide: gli atleti puntano l’albergo e il sonno ristoratore, noi irriducibili preferiamo un ultimo giretto a piedi.
Raggiungiamo Times Square e le sue insegne luminose, poi rientriamo verso l’albergo attraverso la Broadway dove riconosco (difficile ignorarla) l’insegna dell’Ed Sullivan Theater reso famoso dal Letterman Late Show.
Ancora immagini che si accavallano confuse nella mia memoria… ed infine il letto.

Il primo giorno a New York è andato.

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