La fuga

Anche se la gara era appena iniziata, la voce dello speaker aveva una forza ed una tonalità degna della segnatura di un goal in una finale della coppa del mondo.

“And out they go, leaving the stadium after one lap.
Ten man fighting to get the head.
Among them Nik The Snake Parenti.
Will the local runner be able to compete against the strongest athletes of the country?”

In pochi mesi intorno a lui era cresciuto un tifo degno delle partite di rugby australiano.
Era arrivato a Bunbury per caso.
Una sera stava surfando sull’oceano a Biarritz in Francia e aveva incrociato una ragazza. Una faccia nuova, una biondina esile che cavalcava leggera le onde. Si chiamava Ana e veniva dalla Spagna.

Quella sera si era fermato con lei e i suoi amici sulla spiaggia. Avevano bevuto e mangiato delle salsicce bruciacchiate su un falò, discutendo di onde e di sogni. Il loro era di andare in Australia.
Così seguendoli si era trovato sulla Bells Beach e dopo un paio di settimane e una gigantesca litigata con Ana li aveva mollati e aveva iniziato a girare il paese.
Tornato sulla costa alla fine dell’estate, aveva scoperto che loro erano rientrati in Europa e lui aveva preferito cercarsi un lavoro.

La gara di oggi si preannunciava dura. Era la finale del campionato nazionale di corsa campestre. 8 chilometri (non si era ancora abituato a ragionare in miglia), partendo da dentro lo stadio, uscendo nel parco e percorrendo due volte un anello da due miglia prima di andare a tagliare il traguardo di nuovo nello stadio.
Incitato dalla folla era riuscito a tenere la corda in pista e restare con i primi, ma era fuori giri. Forse si era scaldato poco, forse l’aveva presa con troppa foga. Di fatto i polmoni gli bruciavano e il cuore batteva impazzito.
Però era davanti, nei cinque che facevano il ritmo.

Anche al campo di atletica era arrivato per caso.
Lo vedeva ogni giorno mentre andava a lavorare al bar. Così si era informato e aveva scoperto che poteva entrarci gratis.
Aveva deciso di riprendere a correre in modo da restare in forma durante l’inverno e per poter sfruttare la doccia calda. A casa sua c’era solo una piccola vasca nella quale faticava a lavarsi.
Era entrato in un team e, grazie ai tanti allenamenti fatti da ragazzino alla Pro Patria di Milano, presto aveva scoperto di essere tra i più veloci della sua categoria.
E dopo una trionfale serie di gare vinte, eccolo a disputare la finale.

Il biondino era l’osso duro.
Nik gareggiava così. Individuava l’atleta più forte e ingaggiava con lui un corpo a corpo furioso fatto di scatti e controscatti. Un braccio di ferro di forza pura. E quando arrivava in vista del traguardo scattava e lasciava sul posto l’avversario esausto: questo gli aveva guadagnato parecchie medaglie e il soprannome The Snake.

Usciti sullo sterrato il gruppetto si era ulteriormente assottigliato. I velocisti puri avevano ceduto e solo in tre continuavano ad imprimere alla corsa un ritmo forsennato.
Alla fine del primo giro erano rimasti in due, il biondino e lui. Nik attaccò di nuovo in salita, sentiva l’ansimare dell’avversario alle sue spalle, voleva liberarsene. C’era una curva secca e ne approfittò per verificare il suo vantaggio, una decina di metri, forse ce l’aveva fatta.
Ma sulla discesa successiva il biondino gli fu di nuovo addosso e lo infilò in uno slargo. Costretto a sua volta ad inseguire Nik si arrabbiò con se stesso.

corsa campestre

“Che cretino! Pensavo di avercela fatta e non sono ancora a metà gara. Mi sono preoccupato di come mi sentivo invece che continuare a spingere.”
Ecco di nuovo lo stadio, poco più di un giro di pista li separava dal traguardo.
Il biondo correva leggero e veloce, sembrava non far fatica, invece Nik ansimava pesantemente, le gambe erano di marmo ed ogni passo gli provocava una fitta al fegato.
Sentì crescere dentro di lui la rabbia. Abbassò la testa, spense il cervello, ignorò il dolore e la fatica e si mise in scia.

Dentro lo stadio la folla rumoreggiava. Il cronista gridava nel microfono ma le parole si confondevano nelle sue orecchie al fragore generale.
Ultima curva, rettilineo finale, meno di cento metri.
Smise di respirare adesso doveva solo correre. Affiancò la canotta biancoverde dell’avversario e continuò ad accelerare.
Ma non riusciva a superarlo. Venti metri, quindici, dieci, chiuse gli occhi tanto comunque aveva la vista offuscata e cercò di spingere un po’ di più.

Crollarono insieme oltre il filo di lana.
Tossendo ed ansimando, distesi a terra, si scambiarono una stretta di mano ed uno sguardo. Non sapevano ancora chi aveva vinto, ma entrambi sapevano di aver dato il massimo.
Ed era stata una grande gara.

Sul pullman che lo riportava a casa, Nik continuava a giocarellare con la medaglia.
I suoi lo avevano festeggiato come se avesse vinto, ma dentro di lui sentiva crescere quell’ansia che conosceva così bene.
Era una sensazione di insoddisfazione, di lavoro non finito. Sapeva che doveva andarsene da lì, dalla squadra, da Bunbury, dall’Australia.
Doveva cercare nuovi stimoli.

Era una vita che andava avanti così.
Aveva studiato chitarra classica al conservatorio e quando aveva capito che non poteva diventare un concertista aveva mollato.
Aveva convinto Ilaria ad uscire con lui, a fidanzarsi, a sposarsi e, dopo qualche mese, era fuggito.
Lo stesso valeva per il surf e per tutte le altre passioni che avevano costellato la sua esistenza.

Voleva essere il più bravo. Aveva necessità di essere il più bravo.
Nella corsa ci era quasi riuscito. In fondo correre era un modo di fuggire. Per questo gli veniva così bene, ma alla fine aveva fallito. Di nuovo.

E adesso doveva scappare…

[NdA] Questo pezzo fa parte del progetto Frammenti urbani

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